nel vernacolo che più e più ancestralmente mi pervade si definiscono de coccio gli individui particolarmente ostinati e meno propensi al tener conto di necessità e vezzi altrui. nel tardo pomeriggio di ieri mi sentivo motivato a mettere nero su bianco questo dato come premessa a una recondita e sotterranea, privata aspirazione al coccio, contrapposta al peso e alla basilare sconvenienza d’una pratica empatica che il più delle volte, statisticamente, sembra aver condotto di preferenza in nessun luogo per tramite d’una tortuosità che forse ci si poteva anche risparmiare.

stamane, tuttavia, col fumo delle prime sigarette che s’andava a intrecciare in giardino alle prime luci del giorno, tipo risulta d’un principiante sobbollire è emersa alla consapevolezza o quantomeno alla mera considerazione un’altra possibile sfumatura del coccio — ovvero, quella particolare incapacità d’aver compreso a un punto del passato la gittata d’un proprio range, avendo così perso occasione d’eventi corollari che nessun incantesimo retroattivo, forse, potrà oggi rendere di nuovo verificabili. c’è adombro d’artrite nelle dita che infilzano queste righe di parole ma nessun rammarico: era solo per dire che sembra inutile oggi aspirare al coccio perché s’è triti d’esser bimbi di carne e ossa, quando a un’analisi appena più accorta emerge dolentemente che è proprio nelle file della ceramica che s’è sovente vissuti, o tra i cristalli, sugli scaffali delle condizioni iniziali e ignari, in affatto presaghe attese della maldestria taurina che, emergendo come proprio dai ranghi della classe magica di voluminose e inesplicabili fiere fuori contesto, in ultimo ridurrà tutto in frantumi.