ieri pensavo che mi piacerebbe, nei prossimi giorni e settimane, dedicarmi a inoculare l’opera di Ernest Becker, un antropologo statunitense scomparso neanche cinquantenne nel 1974, che l’anno prima di morire diede alle stampe The Denial of Death, (in Italia misteriosamente edito dalla San Paolo, in un tomo fuori stampa da quarant’anni esatti) dove sosteneva la tesi che il carattere degli individui si forma col processo di rifiuto della propria mortalità, che questo rifiuto sia di fondo una componente imprescindibile del funzionamento dell’individuo nel mondo e che la corazza risultante impedisca e oscuri di fatto ogni possibilità di conoscere se stessi. stando a Becker il progresso dell’umanità è un viaggio eroico, in senso monomitico, una ricerca di significato concettuale intentata allo scopo di salvarsi dal terrore della morte e dalla futilità della vita.

manca un anello qui, necessario per passare alle prossime righe. ora non mi viene. è l’episodio che non s’è visto perché passando da un file all’altro, sulla chiavetta, l’abbiamo involontariamente saltato, e ormai potrebbe pure essere tardi, perché il recap ci ha guastato le sorprese che non hanno potuto sorprenderci, ma vista l’ora, la poca lucidità, la condizione cagionevole del cervello ormai poco distante da sparring partner d’un flusso d’intrattenimento che chissà che obiettivo serba veramente in cuore — già, povero cristo, gravitante nella condizione delle tre es: esausto, esangue, esautorato — lasciamo correre e restiamo più in media res del solito, ormai smarrita ogni possibilità di riprendere il filo, ma comunque;

sullo schizza e strappa della scrivania, poche ore prima, nel freddo meriggio: in giro leggo tante belle favole che sembrano contenere la soluzione di tutto. così Charles Hugh Smith sul suo blog per quella che per me era stamane:

È comodo e conviene se i cittadini che si ribellano si organizzano in reti visibili e si concentrano in gruppi che possono essere schiacciati con l’uso della forza. Non è comodo e non conviene quando la rivoluzione, anzi che essere appropriatamente organizzata e frantumabile è una rivoluzione invisibile che consta nel non comparire, non presentarsi.

Sarebbe a dire, una rivoluzione dell’essere stufi e dell’averci rinunciato, di aver trovato un qualche altro modo di vivere diverso dal passare dieci anni a ripagare il debito studentesco e altri trenta a pagare il mutuo per poi trascorrere i pochi rimasti a osservare le maree dell’eccesso finanziario che erodono il castello di sabbia della pensione e di una vecchiaia serena.

poi parla di un’asimmetria: il lavoratore medio che si licenzia sarà pure consequenziale, ma certo non è catastrofico. se si licenzia chi lo coordina, e chi coordina il contesto nel quale lavora, e se si licenzia chi gli pulisce i cessi, chi gli svuota le padelle e i pappagalli all’ospedale e negli ospizi, chi gli macella la carne di cui si nutre, il sistema crolla — perché chi per cultura o predisposizione ha aspettative diverse non fa la fila per svolgere un lavoro sporco, e anche chi queste aspettative non le ha questi lavori spesso non riesce a farli perché sono troppo pesanti e fisicamente estenuanti, e dall’altro lato dello spettro il lavoratore medio deficita della preparazione, della competenza e degli strumenti necessari a gestire operazioni complesse. dunque la rivoluzione scomoda, sconveniente che ipotizza consta di individui il quale sacrificio è essenziale al sistema che semplicemente si rompono le palle di farlo e trovano un altro modo per vivere.

È la conseguenza inevitabile di un sistema corrotto al di là di ogni speranza da frode, ineguaglianza e ingiustizia, un sistema tarato per beneficiare pochi allo scapito delle moltitudini. La gente a un certo punto si scoccia e ci rinuncia.

Non si getta anima e cuore negli ingranaggi di un sistema odioso, ma semplicemente la smette di oliarli col proprio tempo, impegno, debito e danaro. Non servono tante rinunce per scatenare il declino e la rovina. Si applica la distribuzione paretiana. Il sistema riesce ad adattarsi al primo 4% di rinunce, ma le poche altre che seguono scatenano il declino della dedizione del 20% seguente, e il sistema non può sopravvivere quando il 20% trova un altro modo per vivere. L’80% può ancora voler desiderare di oliare gli ingranaggi ma non è più sufficiente a mantenere la coerenza del sistema.

qui dovevo scrivere che il grassetto è mio, e non ne metto alcuno. così da un altro mondo Ottiero Ottieri nel 1952, in uno dei suoi taccuini poi raccolti ne La Linea Gotica:

Per abbattere un muro, non c’è che abbatterlo. Con altri sistemi, come il pensare molto a lungo e molto fortemente alla caduta del muro, non si abbatte.

sul diario, prima del break e dell’incipit, a chiedermi sconsolato: ma cosa mi compelle a scrivere queste cose nefaste? un pensiero indubitabilmente causativo — dice, volgendo il capo, scrutando intorno, vago il gesto della mano a delimitare quaquaversale un perimetro — ha causato tutto, e pure tutto il resto. pensi a lungo sì, e molto fortemente invero, intrusivo a intrudere alveari al collasso, pensi e pensi ed è tutto un tunnel, una magica auriga, e poi a un certo punto scatta il tendine del destriero. il mondo era lo stesso, e andrà così: un impulso via l’altro e d’improvviso, diromper d’olotopia.